Esce in Italia presso l’editore Mimesis il libro di Ted Striphas “La cultura algoritmica prima di Internet”.
Dai primi anni del XXI secolo ci siamo gradualmente insediati in un nuovo ambiente di vita nutrito e intrecciato con dispositivi computerizzati e personalizzati costantemente connessi a reti locali e globali, e in esse – interpolando testi, voce, suoni, immagini – abbiamo pensato, agito e interagito con le persone e il mondo circostante in quasi ogni ambito di attività. Vivere con e nella rete ha messo le persone, sicuramente i non nativi, in una nuova postura espressiva e comunicativa dovendo muoversi in un ambiente macchinico in cui tutto, per funzionare, deve rispondere alle logiche dell’hardware e software che lo sorregge, sebbene i gestori dei vari servizi abbiano via via elaborato interfacce altamente user-friendly per facilitare le interazioni e alimentare i loro successi.
Sono trascorsi quasi 30 anni e rimane sempre intenso nel dibattito pubblico il parlare di algoritmi e di intelligenze artificiali, di un ennesimo slittamento del nostro veloce e dilatato presente verso un nuovo e stupefacente stadio di sviluppo, in cui l’assemblaggio di persone e sistemi computerizzati diviene ancora più sofisticato. Questo mix è ora in grado di affrontare complesse lavorazioni o altre importanti questioni umane in maniera sempre più automatizzata grazie alla potenza computazionale accumulata e alle enormi mole di dati che su di esse le tecniche digitali consentono di acquisire ed elaborare, per formulare modelli e correlazioni con cui determinare una loro governabilità.
Nel nuovo contesto culturale: dall’internet dei beni comuni, a quella del capitale
Su questo continuo e meraviglioso proiettarsi in avanti, tuttavia, si può fare ironia. Una facile considerazione è che non abbiamo ancora ben compreso, almeno come comunità, tutte le conseguenze che gli sviluppi del nostro vivere in internet comporta, rimanendo spesso disorientati e disarmati sul modo di soppesare i tanti fenomeni negativi che con esso incontriamo, incapaci anche di trovarvi soluzioni. In più, tendiamo ancora ad adagiarci troppo sull’idea dell’internet originaria, quella guidata dai “beni comuni”, mentre la stessa si è ora configurata come un Corporate Platform Complex (CPC) visto che il potere di governo è in mano a una manciata di aziende private, grandi e potenti – le Big Tech quali Google/Alphabet, Amazon, Apple, Facebook/Meta, Microsoft, Alibaba e Tencent, guidate dalle ragioni del “capitale” (Terranova 2024).
Se questo è il panorama, troveremmo allora utile anche dibattere su come stia cambiando in generale il contesto culturale, ovvero le cornici, le condizioni e le dinamiche in cui il senso e i significati sono creati, esperiti e condivisi dalle persone. Sappiamo infatti che i processi di significazione accadono in una determinata ecologia materiale e ideale, e che sono centrali per il genere umano, tanto da contraddistinguerlo rispetto a tutte le altre specie viventi con cui conviviamo, e su cui esercitiamo un grande potere. La capacità di assegnare segni/simboli che referenziano liberamente ma intersoggettivamente mondi interiori ed esteriori è infatti una abilità umana unica che dà vita all’immaginazione e alla coscienza (Larsonn 2024). Non è utile quindi solo per relazionarsi con se stessi, gli altri e la realtà circostante, ma anche per coltivare liberamente le possibilità/direzionalità di futuro di un mondo del cui divenire siamo ormai i massimi responsabili.
In effetti, l’arbitrarietà simbolica referenziale – certamente mitigata da contingenze storiche, intersoggettività e autoriflessione – alimenta gli scarti tra le rappresentazioni più o meno realistiche e quelle più o meno utopiche, aprendo così a nuovi spiragli risolutivi rispetto ai condizionamenti degli schemi socio-culturali in essere. Ovviamente il tutto si inquadra in un’ottica di potenzialità: siamo sempre esseri umani in formazione, bisognosi di impegno e cura per salvaguardare queste qualità, e l’importanza che come società attribuiamo al concetto di cultura lo dimostra. Tutto ciò che incide in queste dinamiche e negli equilibri fin qui consolidati – in ultimo, la pervasività e trasversalità in ogni ambito esistenziale dei processi computerizzati e dei suoi algoritmi – è degna dunque di approfondimento per le sue ricadute socio-culturali.
Alle radici della cultura algoritmica
Sotto questo aspetto e di fronte al livello dei cambiamenti in atto vi è allora chi, invece di immaginare le “magnifiche sorti e progressive”, preferisce lanciarci una sfida ben più stimolante: dimostrare come la complessità degli ambienti digitali e del nostro posizionamento in essi diventano più facilmente comprensibili alla luce degli avvenimenti e delle elaborazioni concettuali radicate e forgiate in un passato anche profondo, e che solo facendoci i conti è possibile comprendere la posta in gioco e le sue ramificazioni problematiche, così da muoverci con più proprietà di azione e potere definitorio.
Ted Striphas è professore di studi culturali e co-editor della rivista internazionale Cultural Studies, noto, tra l’altro, per la tempestività e la precisione con cui registrò e definì l’emergenza di una “cultura algoritmica” nella prima decade del XXI secolo (2015). Al tempo evidenziò come l’interazione sempre più stretta tra ambiti/attività culturali e computazione influisce sui processi di definizione delle priorità in termini di eventi, temi, informazione, persone, così come, in generale, nel riorientamento del nostro agire, aspetti questi che in precedenza non delegavamo a entità automatizzate ma intermediavamo con operatori umani – soprattutto gli intermediatori culturali appartenenti alle varie istituzioni sociali ma anche presenti nei media mainstream.
A distanza di anni lo studioso ritorna sull’argomento con il libro La cultura algoritmica prima di Internet. L’obiettivo ora è di indagarne la lunga genesi storica per individuare i temi e le aspettative che ne hanno alimentato e plasmato gli sviluppi, e ciò lo porta a viaggiare tra Oriente e Occidente su eventi, concetti e parole che prendono corpo tra il IX secolo d.C. – sulle orme del matematico persiano Muḥammed ibn-Mūsā al-Khwārizmī, da cui deriva appunto la parola algoritmo – e nei secoli XVII/XIX – periodi in cui si elaborano i concetti di civilizzazione e poi di cultura – per finire negli anni ‘60/‘70 del XX secolo, alle soglie della diffusione dell’informatica e di internet.
Premettiamo di essere rimasti affascinati dallo spirito e dall’arguzia che l’autore investe nella capacità che le scienze sociali hanno nello spiegare la complessità delle realtà socio-culturali, anche quando tutto sembra dispiegarsi per l’effetto travolgente dello sviluppo tecnologico – ed è questa una delle ragioni che ci ha spinto a lavorare affinché l’opera uscisse in Italia. Come afferma l’autore, una realtà digitale più giusta e inclusiva è irraggiungibile “se lasciata solo nelle mani degli ingegneri, per quanto ben intenzionati” p. 29.
I temi che affronterà nel suo approfondimento storico – sia gli sforzi della matematica originaria di semplificare la vita quotidiana delle persone ma anche di indirizzare problemi sociali e morali ardui, sia le difficoltà della convivenza umana di fronte a problematiche quali politiche dello stato, guerre, imperialismo/colonialismo, razza, genere, sessualità, famiglia, normatività, totalitarismo – avvalorano sicuramente la sua tesi.
Le parole-chiavi
Per una ricerca così ampia Striphas utilizza un raffinato approccio multidisciplinare – sociologia e antropologia, letteratura e studi letterari, filologia comparata e storia della matematica – dedicando però un’attenzione centrale proprio ai processi di significazione attraverso l’analisi del linguaggio come luogo di deposito ma anche di movimento dei significati esperiti e circolanti nelle comunità del tempo. Nel suo viaggio indagatore l’autore infatti segue, ma in una versione aggiornata e ampliata, la metodologia delle “parole chiavi” messa a punto dal sociologo culturale Raymond Williams negli anni ‘60/’70 del XX secolo, tesa a cogliere sia le innovazioni che le inerzie semantiche dei concetti condensati nelle parole che utilizziamo.
Ad esempio, già nella stessa definizione di “cultura algoritmica” – una delle parole chiavi che prenderà in considerazione, che troviamo oggi così attinente per descrivere la nuova condizione culturale in cui siamo proiettati – sentiamo risuonare un effetto “stridente” che merita di essere spiegato se vogliamo portare alla luce le matrici tematiche delle tante dinamiche che, giocoforza, come umanità ci ritroviamo acriticamente a rivivere – in questo caso l’accostamento di due ambiti, cultura e computazione, che concepiamo come distanti o antitetici.
L’autore spiega l’utilità dell’approccio in questo modo:
Prendendo spunto da Deleuze, potrebbe valere la pena immaginare i nuovi aspetti della realtà come se fossero pezzi di carta accartocciati – com-plicati (“piegati con”) all’inizio, nel senso che la mescolanza casuale di bordi, angoli e superfici produce un batuffolo amorfo e indifferenziato. Le parole-chiave sono come le fibre di trazione che lentamente distendono il batuffolo, dandogli contorni e definizione, rendendolo così più semplice (dal latino simplex, “una piega”) da riconoscere. La logica qui non è né lineare né dialettica, ma ricorsiva, una funzione dell’immanenza delle parole ai processi di cambiamento storico (2024, p. 77).
La parte introduttiva del lavoro pone molta cura nel precisare la metodologia delle “parole chiavi” per introdurne le potenzialità ma anche per schivarne le insidie, soprattutto quando si tratta di recuperare un passato attraverso fonti documentali “validate” (scrittocentrismo) che si rivelano altamente selettive, provenienti cioè solo da determinati ambienti, o anche rimaneggiate nel tempo, tendenti comunque a perpetuare gli interessi e le ideologie via via dominanti. Sotto questo aspetto l’autore, che è stato anche premiato per una precedente opera dedicata alla storia ed evoluzione dei libri (2009), mette in campo il meglio dell’esperienza maturata nell’ambito degli studi culturali, oltre a diversi rimedi quali l’estensione dello spettro documentale – pescando nell’informalità di archivi inusuali o di aneddoti – e il porre attenzione al non detto più che al detto, con l’effetto di ravvivare i passaggi storici trattati e rimettere carne viva sui personaggi incontrati.
Il riverbero del passato nello scorrere del presente
A questo scopo, in maniera strategica, l’autore – alla luce del nostro intrecciarci con le varie entità algoritmiche quali Google, Facebook, Netflix, Amazon, Apple, Grindr, LinkedIn, Spotify, Pandora, TikTok, Tinder, Twitter, Instagram, ecc. – introduce in ogni capitolo un caso contemporaneo di cultura algoritmica – o una controversia che la riguarda – in modo che gli elementi argomentativi possano poi tornare nei principali temi trattati. Il risultato è di ampliare la conoscenza degli argomenti contemporanei che, divenendo più noti, riescono poi a orientarci nel materiale storico, dove i punti di riferimento familiari della cultura algoritmica per lo più sfuggono.
Tra l’altro, l’accumulo degli esempi contemporanei nei vari capitoli dimostra l’ampiezza delle odierne criticità, così come i molti e importanti “cambiamenti nel modo in cui si pratica e si giudica la cultura, e da chi – o da che cosa. [Una cultura che oggi] opera in sistemi socio-tecnici sempre più densi, o in insiemi di persone e macchine in cui nessuna delle due parti detiene il comando esclusivo. Sono sistemi sempre più chiamati a mettere ordine su rivendicazioni concorrenti di attenzione, importanza, autorità e altro ancora” p. 26.
In ultimo, gli episodi dell’attualità che fanno da incipit tematici ai relativi excursus storici evidenziano anche l’importanza di entrare nei terms and conditions della cultura algoritmica. È un lavoro, questo, su cui la grande parte di noi generalmente sorvola, ma che la sapiente arguzia e chiarezza dell’autore rende finalmente accessibile e interessante per sviscerare, con una sensibilità unica, le trame ambigue e profonde in cui le nostre odierne esistenze si innestano e riconnettono.
Da questo punto di vista l’opera di Striphas smonta la propagandata retorica di una disruption digitale come forza esogena capace di per sé di equalizzare il campo di azione e avvantaggiare tutti o – in ultimo, nel caso dell’Intelligenza Artificiale – di auto o semi-automatizzare le soluzioni agli ardui problemi di un’umanità in continua lotta per una convivenza più giusta e solidale.
Riferimenti
Larsson, B., 2024, Essere o non essere umani. Ripensare l’uomo tra scienza e altri saperi, Milano, Raffaello Cortina Editore.
Striphas, T.,
2009, The Late Age of Print. Everyday Book Culture from Consumerism to Control, New York, Columbia University Press.
2015, “Algorithmic culture”, European Journal of Cultural Studies, v. 18 (4-5), pp. 395-412.
2024, La cultura algoritmica prima di Internet, Milano, Mimesis.
Terranova, T., 2024, Dopo internet. Le reti digitali tra capitale e comune, Roma, Nero.