Abstract
L’innovazione tecnologica ci proietta in scenari che spesso ci disorientano per i loro effetti sociali complessivi. Questo articolo ci invita a prendere coscienza della nostra attuale condizione di vita al fine di affrontare la forte spinta sociale e culturale dominata sia dalla ricerca individuale di partnership macchiniche che dai vincoli e dalle norme dettate dal nuovo istituzionalismo algoritmico.
Introduzione
Essere cittadini del XXI secolo comporta avere una crescente intimità di uso – e anche di ibridazione corporea – con tecnologie di tutti i tipi ( bio, info, nano e neuro) così come con organizzazioni/entità algoritmiche diventate, a livello culturale e sociale, vere e proprie istituzioni globali.
Esistiamo e operiamo nel mondo come assemblaggi di materiali compositi e interagenti, provenienti da ciò che definiamo natura, cultura o tecnica, e nel farlo ci muoviamo in determinate cornici normative e valoriali. I processi di ibridazione hanno contraddistinto gli esseri umani da tempi immemori ma le ultime incorporazioni tecnologiche ci hanno perfino spinto a definirci cyborg nel tentativo di dare senso a queste profonde svolte esistenziali e ai loro riflessi nelle vite individuali e collettive.
Discussione
Tuttavia, la nostra assimilazione ideale ai cyborg diventa una constatazione che può risultare al momento schioccante ma non utile nel far mantenere un’attenzione critica sui processi riguardanti i cambiamenti che velocemente inglobiamo, e che ci trascinano in ecologie socio-culturali che troviamo spesso spiazzanti negli effetti complessivi
Tra l’altro, nel versante tecnologico non tutto si sviluppa con pari velocità: è facile constatare come le componenti “info”, con i nuovi sistemi macchinici di natura informazionale – sempre più guidati dagli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale (IA), sparsi in ogni piega di prodotti informativi, lavorativi o d’intrattenimento –, ci stiano letteralmente divorando alzando le loro pretese di partecipazione sociale in termini di automatismi predittivi e risposte personalizzate.
Tali sistemi ci intermediano in ogni sorta di attività, come certificano le quantità di interazioni e attività svolte quotidianamente tramite lo smartphone, diventato centro nevralgico delle nostre vite – in effetti, come è stato giustamente notato, mai nella storia dell’umanità siamo stati così dipendenti da un’unica tecnologia (De Martin 2023).
Ovviamente, come dicevamo, siamo predisposti a tutto ciò. Solo per rimanere negli ultimi secoli, la nostra inter-penetrazione con le macchine è figlia del vivere in un mondo altamente industrializzato e tecnologizzato, in cui siamo abituati a dispiegarci utilizzando le risorse organizzate estensivamente da complessi sistemi socio-tecnici, e imbastiamo nuove relazioni secondo le forme e i condizionamenti raggiunte dalle nuove frontiere tecno-umane (Allenby, Sarewitz 2011).
Partnership macchiniche
In sintesi, per dirlo ancora più chiaramente, la nostra condizione è di vivere alla continua ricerca di partnership macchiniche. In un saggio dedicato all’immaginario algoritmico alimentato dai nuovi software dell’IA il filosofo Alberto Romele riassume una sua giornata tipo – la riportiamo interamente perché ricalca probabilmente quelle di miliardi di altre persone.
Quando mi sveglio al mattino, la prima cosa che faccio è accendere il mio telefono. Per controllare le notizie, uso Google News, che mi segnala le notizie che mi interessano. Trovo, ad esempio, l’ultima trasmissione della radio francese France Culture. Poi leggo qualcosa su Steph Curry, il mio giocatore preferito della National Basketball Association. Poi ci sono notizie sulla guerra in Ucraina o sullo street food di Parigi, Porto, Verona e Napoli. Non solo tutte queste notizie sono di grande interesse ‘per me’, ma Google News seleziona efficacemente le fonti che più riflettono le mie opinioni etiche, sociali e politiche. A volte mi vengono fornite notizie dal giornale conservatore francese ‘Le Figaro’, ma si tratta di un piccolo errore perché in una notte insonne stavo cercando informazioni sui candidati di destra alle ultime elezioni presidenziali francesi. Di solito passo la mattina a scrivere. La prima cosa che faccio è mettere le cuffie e aprire Spotify sul mio computer. Spotify mi offre numerose playlist: Discover Weekly, Release Radar, On Repeat, Your Summer Rewind e così via. Adoro queste playlist perché mi permettono di ascoltare cose nuove che so già che non mi disturberanno durante la mia routine di scrittura, perché hanno un suono così simile a quello che conosco, ascolto e mi piace di solito che passano quasi inosservate. Queste canzoni miglioreranno semplicemente il mio umore mattutino e la mia concentrazione a livello quasi inconscio, senza creare ostacoli o attriti. Nel giro di una o due settimane, l’algoritmo di Spotify le sostituirà con altre canzoni e io non me ne accorgerò nemmeno. Di solito il pomeriggio è faticoso per me svolgere un lavoro vero e proprio. Per lo più mi dedico a rispondere alle e-mail di studenti e colleghi, a risolvere problemi amministrativi e (solo se ho davvero tempo a disposizione) a leggere qualcosa. Tendo a distrarmi facilmente e quindi mi ritrovo spesso a navigare sui social media, in particolare su Facebook, Twitter e Instagram. Mi sento a mio agio a scorrere i feed di questi social media, che ho contribuito a costruire con like, retweet, follow e così via. Su questi siti trovo anche un giusto equilibrio tra cose che riguardano amici e conoscenti, altre che riguardano sconosciuti e altre ancora che riguardano prodotti che, per un motivo o per l’altro, potrebbero interessarmi. E non è raro che io clicchi sulla pubblicità di questi prodotti, soprattutto vestiti, libri, concerti e altri eventi, e finisca per acquistarli. Al termine dell’acquisto, gli stessi siti mi suggeriscono altri prodotti che potrebbero interessarmi, in base agli interessi dimostrati dalle persone che hanno acquistato lo stesso prodotto o gli stessi prodotti che ho appena comprato. Le cose non finiscono nemmeno la sera: dopo aver messo a letto i miei figli, io e mia moglie ci sediamo a guardare alcune serie su Netflix. Ho notato qualche giorno fa che, mentre prima vivevo la fine di una serie con ‘horror vacui’, ora sono rassicurato dal fatto che l’algoritmo di Netflix non mi darà nemmeno più il tempo di sentirmi vuoto e disperato, come quando ho finito Breaking Bad. Quasi certamente avrò subito un nuovo suggerimento algoritmico piuttosto allettante. Tra una grande serie e l’altra, un po’ come nelle storie d’amore, si intervallano brevi avventure, alcune illuminanti, altre semplici distrazioni dalla paura di rimanere senza distrazioni anche solo per una sera (2023, pp. 1-2).
In questa descrizione traspare in tutta la sua pregnanza la placida complicità che si è stabilità tra le persone e quei nuovi dispositivi macchinici sospinti con efficacia e saudenza dall’economia informazionale della rete (Castells 1996). Parlare dunque di ciò come di un rapporto di “partnership con il macchinico” è certamente più onesto e meno criptico poiché sottolinea l’azione/intenzione di legarsi a qualcuno/qualcosa per generare o produrre un risultato per noi benefico. Allo stesso tempo, la consapevolezza di essere in una partnership dovrebbe metterci in guardia del fatto che stiamo intraprendendo un rapporto con altre entità e ciò, idealmente, richiederebbe allineamento/rispetto per obiettivi comuni e reciproco controllo – invece, è noto che uno dei più grandi problemi che gli utenti digitali vivono è proprio lo sbilanciamento di potere in favore dell’opacità dei sistemi algoritmici, che denotano interesse a rimanere per noi delle vere e proprie black-box (Pasquale 2015).
L’istituzionalismo algoritmico
In ogni caso, l’ascesa di sistemi algoritmici basati sui nuovi software IA, capaci di costruire macchine dotate di una propria agency, proietta la partnership in territori sociali nuovi e con effetti sistemici su tutta la comunità. Non sappiamo se stimolati anche dal fatto che i responsabili di queste big-tech sono ricevuti normalmente con tutti gli onori dai vari rappresentanti politici e religiosi nei vari paesi del mondo, ma alcuni studiosi ne hanno voluto delineare le caratteristiche paragonando i vari Google, Facebook, Apple, Netflix, ecc. – ma anche i software che si occupano autonomamente di esaminare ed eventualmente erogare prestiti, di assumere personale, di applicare sentenze o sconti di pena, di prevenire eventuali azioni criminose, e così via – a vere e proprie istituzioni sociali in quanto sistemi regolativi che orientano i comportamenti e applicano risposte a livello individuale
Eppure, rispetto alle istituzioni tradizionali e pubbliche operanti nei sistemi democratici, le nuove istituzioni algoritmiche – in cui le persone, altrettanto validamente, esperiscono dei veri e propri percorsi di socializzazione riadattando idee e pratiche – si organizzano e muovono in completa autonomia, ovvero non confrontandosi in termini di giustezza ed equità con la più ampia società, se non a posteriori, selettivamente e con grande riottosità.
Insomma, nel momento in cui la vita digitale è diventata un tutt’uno con la cosiddetta vita normale abbiamo un’urgente necessità di descrivere e definire in maniera più attinente le dinamiche emergenti – anche in termini di linguaggio (Striphas 2024) – così da prenderne le misure e riaggiornare le teorie sociali in grado di fornire cornici esplicative per un operare umano così inestricabilmente intrecciato a sistemi macchinici sempre più inter-penetranti. La presa d’atto di un’istituzionalizzazione dei sistemi algoritmici va certamente in questo senso poiché nessuno può negare
i benefici degli algoritmi: spesso ottimizzano risorse scarse, forniscono servizi efficienti su scala e creano modi per gestire la complessità del mondo moderno. Tuttavia, se guardiamo oltre la facciata dell’efficienza e della convenienza tecnologica, emerge una realtà più complessa. In molte situazioni, i sistemi algoritmici riproducono pregiudizi o forme di discriminazione, aumentano le disuguaglianze, violano i principi dei diritti umani e prendono decisioni che non possono essere spiegate (Mendonca, Almeida, Filgueiras 2023, p. 1).
Di fronte a questa realtà, abbiamo il dovere di intervenire con tutti i mezzi che le democrazie ci mettono a disposizione per discutere e correggere le cose che, in termini di vita comune, non funzionano, come ci sforziamo di fare con le altre nostre istituzioni sociali. In definitiva, dovremmo essere coscienti
che gli algoritmi non solo stanno cambiando le istituzioni esistenti, ma possono essere concepiti essi stessi come istituzioni nella misura in cui inquadrano i contesti di interazione, creano percorsi di sviluppo, inducono o vincolano determinati comportamenti con conseguenze collettive. Gli algoritmi stanno rimodellando le condizioni per le azioni in molti contesti, in quanto strutturano regole, norme e significati alla base dell’azione sociale (ivi, p. 2).
Riferimenti
Allenby, B., Sarewitz, D., 2011, The Techno-Human Condition, Boston, The Mit Press.
Castells, M., 1996, La nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi Editore 2014.
De Martin, J. C., 2023, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, Torino, Add editore.
Mendonca, R. F., Almeida, V., Filgueiras, F., 2023, Algorithmic Institutionalism: The Changing Rules of Social and Political Life, Oxford, Oxford University Press.
Pasquale, F., 2015, The Black Box Society: The Secret Algorithms That Control Money and Information, Harvard, Harvard University Press.
Romele, A., 2023, Digital Habitus: A Critique of the Imaginaries of Artificial Intelligence, Londra, Routledge.
Striphas, T., 2024, La cultura algoritmica prima di Internet, Milano, Mimesis.